Nigra Sum

Di Marino Mariani

Nigra Sum..

Nigra Sum..

Allo scopo di allargare l’orizzonte della nostra pubblicazione ed estenderne la sfera d’interesse a tutti i membri della famiglia, come potete facilmente verificare, abbiamo aumentato il numero delle nostre rubriche, benché alcune sono state annunciate ma risultano, al momento, inevase. Una che mi sta particolarmente a cuore è quella intitolata “Glamour”, in procinto di essere mutata in “Glamour & Fashion”, perché le due entità, la vocazione femminile all’attrazione e le vesti con cui adorna le sue sembianze, quando sono separate sommano se stesse, mentre unite fermentano, crescono e si moltiplicano. La linfa che alimenta questi processi è il concetto e la percezione della bellezza, la cui definizione accademica troverete nei dizionari e nelle enciclopedie, mentre la definizione operativa la incontrerete nella vostra vita e nelle opere degli artisti. In un romanzo di Carolina Invernizio, dalla trama intricatissima, un bambino viene rapito dalla culla ed affidato alle cure di un porcaro. Cresce come un pastorello e vive in una baracca al limitare del bosco. Un giorno, una gentile fanciulla che dimora in un castello, s’avvicina al bosco, scende dal suo cavallino e si dirige verso la baracca. Il pastorello la guarda incantato da tanta bellezza, cade in ginocchio e le domanda: “Siete la Madonna?” Verso la fine del libro si scoprirà che i due sono fratello e sorella. Anch’io ho visto la Madonna, sul canale 21 del digitale terrestre qui a Roma, designato come “Real Time”, specializzato in trasmissioni nuziali. Lo guardo raramente, ma ogni volta che mi sintonizzo, capito nel bel mezzo della scelta dell’abito da sposa in un grande magazzino che offre una scelta inesauribile. La scena che descrivo riguarda una giovanetta negra alta due metri (1,93 a piedi nudi), attorniata da un nugolo di amichette lillipuziane. La ragazza è un’atleta (basket, volley, salto in alto?), ha la front bombé d’una bambina africana, lo sguardo d’una dolcezza fondente ed una preoccupazione che crea una piccola zona d’ombra nella sua raggiante avvenenza. Quella di trovare un abito da sposa che non la faccia sembrare più alta del suo promesso sposo, un nanerottolo da 1,85. La missione sembra impossibile. Il cerimoniere sparisce nell’immenso magazzino di quell’emporio, in cui pendono non meno di duemila abiti bianchi. Passano cinque minuti, e le ragazze parlano animatamente tra loro. Passano altri cinque minuti ed una ragazza si alza e parte in perlustrazione. Passa ancora del tempo e si profila un’infausta diagnosi. Poi, come se niente fosse, tranquillo si presenta il commesso (che però, scusatemi, è una donna), con l’abito ripiegato tra le braccia: “Trovato, questo le starà a pennello”. Uscita dal camerino: come di prammatica, l’abito le lascia le spalle e le braccia nude, trova il naturale punto d’attacco sul seno, si stringe alla vita, poi si getta giù spumeggiando come le cascate del Reno a Sciaffusa, per arrestarsi ad un millimetro dal suolo. L’abito le sta a pennello. La ragazza non trattiene le lacrime e le amiche la festeggiano inscenando una danza tribale. In quel momento ho visto l’avvenenza femminile, compressa come in una stella di neutroni, esplodere in una supernova di apostolico splendore. Per uscire da un’esagerata figurazione, per entrare in un’altra dello stesso calibro, dirò che tra l’infinita quantità di ritratti femminili visti e studiati sui libri di scuola, visti e studiati in tanti musei di tutto il mondo, visti e studiati nei libri della mia biblioteca, ma soprattutto visti e rivisti, studiati e ristudiati su internet, il culmine della bellezza di una donna non l’ho trovato nel giardino della Gioconda, ma nel fuggente fotogramma televisivo di una ragazza negra che prova il vestito da sposa.

Sono negra…
Esaltato da questa mirifica visione, presi la risoluzione di mettere da parte ogni mia reticenza e titubanza e di affrontare spavaldamente le trappole e le insidie riposte in una rubrica di glamour e di fashion. Iniziare subito con una serie di articoli sulla bellezza ed eleganza delle negre. Trovato immediatamente il titolo, in latino: “ Nigra Sum”. Ma perché? Perché riecheggia l’arcana armonia del biblico versetto: “Nigra sum sed formosa”. Al tempo mio era abituale chiamar “formosa” una donna di provocante avvenenza. Per di più, a dare la nota esotica, una “negra”! Questo versetto, preso separatamente, brilla di luce propria e mormora una languida nenia. Ma fa parte di un insieme più grande: “Il cantico dei Cantici”: un intero capitolo della Sacra Bibbia, un poema di quattrocento versi attribuiti al re Salomone: Quanto alla negritudine della ragazza, la Vulgata di Eusebio liquida la questione in un paio di versi successivi:

Nigra sum sed formosa, filiae Ierusalem,
Sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salma.
Nolite me considerare fusca sim,
Quia decoloravit me sol.

Che, nella traduzione vaticana della Bibbia di Gerusalemme, così si esprime:

Bruna sono ma bella,
O figlie di Gerusalemme,
Come le tende di Kedar,
Come i padiglioni di Salma.
Non state a guardare che son bruna,
Perché mi ha abbronzato il sole.

Donna Lola

Donna Lola

Sorvolando sulla rara bruttezza della traduzione, rileviamo che dal poema sparisce la discriminazione raziale (la ragazza non è d’origine negra) e subentra, al suo posto, la discriminazione sociale: le ragazze d’alto lignaggio (filiae Ierusalem), si stendono sui cuscini delle loro ombreggiate dimore e rimangono eburnee, mentre le figlie del popolo, le serve e le schiave vanno per i campi a vangare la terra, a zappettare e potare le vigne, a pascolare gli armenti, a bruciarsi sotto il sole, a sudare per il caldo e la fatica. E diventano nere come i tendaggi di Keddar, intrecciati con peli di capra, o come le capanne di Salma (l’una e l’altra tribù beduine). Chiariti questi particolari, si schiude avanti a noi il più fitto dei misteri: dato pur per scontato che dei tanti milioni di possessori d’una Bibbia, nessuno si sia preso lo scomodo di leggerla per intero, perché, invece, chi neanche possiede un Vangelo, ha buone probabilità, se sente dire: ”Nigra sum…” di completare la frase con:”…sed formosa”? Innanzitutto chiariamo, se ce ne fosse bisogno, che la religione cristiana fonda la sua fede sulla Bibbia degli Ebrei (Antico Testamento), sui quattro Vangeli sinottici degli apostoli, che narrano la vita di Gesù di Nazareth (Nuovo Testamento), sulle lettere degli apostoli, sulla profezia dell’Apocalisse, e sulla dottrina del catechismo. Il problema fondamentale della Chiesa è quello di forzare i fedeli a credere che il Nuovo Testamento sia completamente preconizzato dal Vecchio, come se il compito dell’Antico fosse principalmente quello di annunciare la venuta del Cristo. Per secoli hanno dibattuto casi e situazioni generati da questo intento, al punto di identificare la Sulamita (nigra sed formosa) con la Beata Vergine Maria madre di Nostro Signore Gesù Cristo. Identificando cioè la Madonna per antonomasia con una delle mille amanti di Salomone, e dando via ad un’intera categoria di Madonne Nere, di cui centinaia di esemplari sono venerate in immagine in altrettanti siti europei (tra cui prevale la Francia). Io, ovviamente, non posseggo né il mandato né la dottrina per partecipare a questo dibattito, che in buona parte si svolge su internet. Ma ci sono fatti concreti visibili e palpabili con mano. La frase latina possiede un innegabile fascino, ed ha ispirato, con tutte le sue varianti, musicisti come Pier Luigi da Palestrina, Claudio Monteverdi, Michael Praetorius e chissà quanti altri fra le schiere di studiosi, poeti, scrittori, storiografi e fedeli esaltati attratti dal tema. Comunque, tra i tanti testi adottati dai musicisti, prediligo quello denominato “Victoria’s Text”, che liquida in poche righe tutto Il Cantico dei Cantici:

Nigra sum sed formosa filia Ierusalem
Ideo dilexit me Rex, et introduxit [me]
in cubiculum suum et dixit mihi:
Surge, amica mea… et veni. 
Iam hiems transiit, imber abiit et recessit,
flores apparuerunt in terra nostra;
tempus putationis advenit.

Che, tanto per saperne il significato, può essere tradotto così:

Sono negra, ma procace
Sono figlia d’Israele.
Piacqui al Re che m’introdusse
Nel suo talamo nuziale.
“Non restare genuflessa,
Vieni a me, amica mia”.
Già l’inverno s’ allontana,
Già le piogge son passate.
Tutti i prati son fioriti
Ed è tempo di potare.

Ovviamente, il brano deve la sua popolarità ai numerosi artisti che l’hanno glorificato, ciascuno nella propria arte, ma la spinta decisiva è sicuramente dovuta all’iniziativa della Chiesa di introdurlo nella propria liturgia. Ed è altrettanto sicuro che la maggioranza sia rimasta commossa e conquistata dall’errata ma spontanea interpretazione dell’inizio, che sembra il lamento e la protesta di una fanciulla che dica: “Non disprezzatemi per il colore della pelle: anch’io sono piacente! Pensate, il Re quando m’ha vista, m’ha subito…” Anch’io, per anni ed anni, ho condiviso l’errata interpretazione, ma quando sono pervenuto a quella giusta, ho smesso di compiangere quella fanciulla ebrea, in realtà fortunata per essere entrata nell’harem di quel licenzioso monarca, ma ho esteso la mia solidarietà a tutto il popolo delle donne negre che, da una parte, con il loro lavoro, mandano avanti l’ Africa, e dall’altra, possono vantarsi di essere le donne più belle del creato. E se ne vantano, ma dopo secoli e secoli di sofferenze. Quando ero bambino ricordo che le enciclopedie e i libri di viaggi e avventure pubblicavano foto e disegni di donne “indigene” colpite da crudeli malformazioni dovute a carenze, sottonutrizione, stenti, epidemie, ambiente malsano…Poi, nel 1935, nell’imminenza della guerra italo-etiopica, in Italia scoppiò la febbre di “Faccetta Nera” ed i nostri giornali cominciarono a vantarsi che le donne dell’AOI (Africa Orientale Italiana), fossero le più belle di tutto il Continente. Molte mogli italiane soffrirono per la fuga dei loro mariti che avevano contratto, in quelle terre, il “mal d’Africa”, l’irresistibile passione per quelle donne così avvenenti e così amorevoli. Incredibilmente, il regime fascista promosse ed esaltò questa componente galante di quell’impresa militare. Celebri furono le cartoline illustrate con le vignette di Vittorio De Seta, una delle quali mostra un gruppo di soldati che si sbarba, si lucida le scarpe, si profuma, si pettina e si specchia ed un messo trafelato che annuncia l’arrivo delle donne guerriere abissine. Dal canto suo Josephine Baker, da Parigi, condannava il regime schiavista etiopico e s’impegnava ad arruolare una brigata di liberazione da spedire in Africa a fianco delle truppe italiane. Poi constatò che Mussolini se la cavava benissimo senza di bisogno di ulteriori aiuti e benedisse la nostra missione.

"Non guardarmi così"

“Non guardarmi così”

Glamour and Fashion
Gli italiani che nel 1935-36 partirono per la guerra d’Etiopia, portavano nello zaino il pesante fardello della sconfitta subita, quarant’anni prima, nella terribile battaglia di Adua, quella che gli storici sono concordi nel descrivere come la più grande battaglia svoltasi in tutta l’Africa dai tempi d’Annibale. Nella narrazione di Angelo Del Boca la battaglia era descritta così: sulla cima di una collina il Negus Menelik e l’Imperatrice Taitù seguivano lo svolgersi degli eventi, Attorno a loro il clero salmodiava invocando l’aiuto celeste. Più in basso, sparpagliate sul pendio, le donne seguivano ansiose le gesta dei loro cari. Quando ne vedevano uno colpito cadere al suolo, si gettavano giù, a perdifiato, sfidavano il fischio dei proiettili che fioccavano da tutte le parti, lo soccorrevano, tentavano di trascinarlo al riparo, oppure confortavano il loro padre, o il figlio, o il marito con l’ultimo abbraccio, con l’ultimo bacio. Rimpiango di non essere milionario, avrei girato il film di quest’epopea eroica, a titolo di riscatto di tutte le piaghe inflitte a questo continente martire. Ma oggi sono galvanizzato, come se avessi raccolto una vittoria personale. O l’ho ottenuta per davvero? Ebbene, innanzitutto ho deciso di aprire la rubrica intitolata “Glamour and Fashion” con una serie di articoli intitolati “Nigra Sum”, nel senso di “Nigra Sum…punto e basta!”. Nessun legame biblico-evangelico, nessun rapporto amoroso con re Salomone, nessuna identificazione con la Beata Vergine Maria, bensì l’elegia, l’ode, il trionfo della donna africana come fiera rappresentante di se stessa. Ovviamente, quando ho cominciato a coltivare queste idee, mi sembrava tassativo rintracciare qualche fotogramma della sposina americana, e forse, prima o poi, li troverò. Ma se voi aveste visto e toccata con mano la gemma più preziosa di questo mondo, e ne portaste con voi il ricordo indelebile, e se a distanza di tempo, vi portassero a visitare lo stabilimento in cui le pietre grezze arrivano, vengono selezionate, sbozzate, lavorate, montate ed esposte in apposite vetrinette, ricordereste ancora il primo incontro con quel gioiello solitario? Ebbene, se la visione di quella sposina negra vista fugacemente in TV fosse rimasta un’esperienza solitaria, probabilmente i miei bollenti spiriti si sarebbero appassiti e spenti. Ma, a forza di cercare Black Beauties o African Wedding, finalmente mi sono imbattuto nella miniera di diamanti, una certa ditta olandese, di nome Vlisco, che dal 1846, cioè mezzo secolo prima della prima battaglia di Adua, fabbrica ed esporta le tipiche stoffe africane, dai colori sgargianti, denominate “wax prints”. Non posso dire di saperne molto di queste “wax prints”, ma posso anticipare che esse utilizzano la tecnica del batik, cioè l’arte di colorare il cotone coprendo con la cera le parti che non si vogliono colorare, e che il risultato finale è quello di un tessuto che non ha un dritto e rovescio, ma presenta lo stesso disegno con gli stessi colori su entrambi i lati. Un’altra notizia interessante è che il mercato di questi tessuti è assorbito per il 95% dal continente africano, Il legame che unisce la donna africana al wax prints trascende la semplice funzione di abbigliamento personale e arredo per la casa, ma investe tutta la sfera della comunicazione. Argomento complesso e delicato cui vedremo di attingere ulteriori informazioni. Ma, tutto ciò premesso, ribadisco che, in questa nuovo rubrica, l’argomento della moda è solo marginale, perché il suo scopo principale è quello della presentazione e dell’esaltazione della bellezza femminile. Ebbene, da quello che ho potuto capire da questo primo approccio, ed a vedere le foto sembra del tutto convincente, è che l’Africa produce queste meravigliose stoffe per se stessa, per le sue donne, le quali, basta un’occhiata per capire, sono le uniche a poterle, e saperle, indossare.

Statue e personaggi
Tra le centinaia di fotografie che ho trovato su internet, la quasi totalità digitando il nome fatato di “Vlisco”, nessuna rappresenta una tipica mannequin che sfila mettendo in mostra un abito con lo scopo che piaccia al pubblico ed induca le signore a comprarlo. Sembra invece che si esibiscano nella loro interpretazione di un capolavoro dell’arte o di un personaggio dell’opera lirica o della letteratura, o, comunque, della leggenda. La ragazza che apre la nostra rassegna prende di mira la Venere di Milo, il capolavoro in marmo pario di Alessandro di Antiochia, esposto al Louvre. Ma il confronto è impari, perché questa, pur non essendo scolpita nel marmo, ha una immobilità intrinseca, il suo sguardo non è diretto verso nessuno, ma trafigge il cuore di tutti. Al confronto, la Venere del Louvre è una brava figliola che i nonni ricordano quando la tenevano sulle ginocchia e la imboccavano. Nel 1953 il regista Alberto Lattuada girò il film “La Lupa”, trasportando all’epoca attuale la vicenda ottocentesca dell’omonimo racconto di Giovanni Verga. Non fu l’unico atto di coraggio dimostrato dal regista nella realizzazione di questo film, L’altro fu quello di dare il ruolo della malafemmina lucana ad una “negra”: l’algerina Kerima. Al termine del film non penso proprio di essere stato l’unico spettatore a rimpiangere la fine tragica di questa donna, travolta dal peso dei propri peccati. Noi, giovani universitari, sapevamo che nella nostra vita non avremo mai incontrato una donna di cotanta lancinante bellezza, cui soggiacere nel bene e nel male. Ma lo stesso si può dire di tutte le altre foto: ognuna delle ragazze africane raffigurate avrebbe impresso un’impronta indelebile nei ruoli storici della Regina di Saba o di Cleopatra, lasciando magari dietro di sé una scia di sangue, al posto dei cortesi applausi che hanno salutato le bellezze della porta accanto di Gina Lollobrigida e di Elizabeth Taylor, evidentemente più adatte ad altri ruoli. A mio parere, nella foto d’apertura è raffigurata la donna cha da sola avrebbe potuto impersonare tutti i ruoli di storica bellezza sovrumana, meritandosi il plauso di Fidia, Policleto, lisippo…e di Michelangelo.

Le sorelle di Cenerentola

Le sorelle di Cenerentola

Donna Lola e le opere liriche
Dello stesso autore della “Lupa”, Giovanni Verga, è anche “Cavalleria Rusticana”, ma mentre nel primo racconto la Lupa, come personaggio, occupa l’intera durata della vicenda, in “Cavalleria” il personaggio che determina la tragedia, donna Lola, appare sulla scena per solo due minuti cronometrati. Naturalmente stiamo parlando della versione lirica di Cavalleria, quella musicata da Pietro Mascagni, su libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci , opera che ebbe un clamoroso successo sin dalla sua prima esecuzione e che fruttò a Verga, per diritti d’autore, tanti quattrini quanti lo scrittore catanese non aveva mai visto in tutta la sua carriera letteraria. Ma i due minuti di apparizione di donna Lola sulla scena non sono un primato mondiale: nell’opera “L’Arlesiana” di Francesco Cilea, la protagonista non appare mai in scena, ma perseguita come un incubo il giovane Federico che, non potendola sposare, alla fine si suicida. Nella Cavalleria Rusticana di Mascagni la vicenda è imperniata sul difficile rapporto tra Turiddu e la sua fidanzata istituzionale, Santuzza, mite e devota, che ha ceduto all’impeto amoroso di Turiddu. Ma ben presto Santuzza si rende conto che Turiddu la tradisce: Approfittando delle prolungate assenze di compare Alfio, marito di donna Lola, di professione sensale e carrettiere, Turiddu passa le notti con Lola, e fugacemente torna all’ovile all’alba. Nel giorno di Pasqua Santuzza affronta Turiddu sul sagrato, e lo accusa di spergiuro. Lui nega, nasce un alterco in cui Turiddo accusa Santuzza di spiarlo, ma nel momento culminante: alla tragica musica si sovrappongono le ingenue note di uno stornello paesano: “Fior di giaggiolo…” e donna Lola, che si reca in chiesa, fa la sua fugace apparizione sulla scena. Ella scambia un paio di battute con i due, e beffarda li lascia, sempre accompagnata dal suo stornello. In quella fugace apparizione il pubblico ha l’occasione di verificare l’amara constatazione di Santuzza: “Assai più bella è Lola”. Ma per ragioni varie, tra cui la disponibilità, la notorietà, l’ingaggio, non sempre a teatro è dato di vedere una Lola talmente più bella di Santuzza da giustificare il tradimento di Turiddu. Lo stesso capita nella più celebre opera di Mozart, il “Don Giovanni”, in cui il protagonista è assillato dalla nobildonna Elvira che lo ama, e che lui respinge per andare a pomiciare con la contadinotta Zerlina. Ebbene, capita che nella maggior trasposizione cinematografica dell’opera, nel “Don Giovanni” di Losey, la parte di donna Elvira sia affidata al soprano neozelandese Kiri Te Kanawa, un’aborigena maori, una regina di bellezza mondiale assoluta cui si contrappone una Zerlina interpretata da Teresa Berganza, cantante da applaudire più che da concupire. Il pubblico ha tutte le ragioni di domandarsi perché Don Giovanni dovesse respingere la nobildonna Elvira, affascinante oltre ogni misura, per una non rimarchevole…contadinotta. Venticinque anni prima del Don Giovanni di Losey, e cioè nel 1954, il regista Otto Preminger filmò “Carmen Jones”, un musical basato sulle musiche di Bizet e di Oscar Hammerstein, ed integralmente interpretato da artisti negri. Si proponeva il solito problema delle esigenze di spettacolo, ma anche di esecuzione musicale, dato che il film veniva presentato al festival di Cannes, ed era destinato ad una distribuzione mondiale. La produzione non ebbe alcun problema nell’affidare le parti agli interpreti più avvenenti, per poi doppiarli con i cantanti più famosi, e così Carmen Jones fu impersonata dalla più bella Carmen negra possibile, l’incantevole Dorothy Dandridge, doppiata dal miglior mezzo soprano (bianco) disponibile: Marilyn Horne. Il doppiaggio fu talmente perfetto che, essendo Dorothy Dandridge ella stessa una cantante, ho sempre creduto che nel film cantasse con la sua stessa voce. Tutto ciò premesso, tornando al concetto di bellezza al primo sguardo, quella che non richiede ulteriore riflessione per essere accettata come tale, e capace di giustificare il tradimento di Turiddu e l’indecifrabile comportamento di Don Giovanni (giustificazione beninteso scenica) l’ho sintetizzato nella seconda foto intitolata, appunto, come Donna Lola. Essendo il mondo dell’opera lirica praticamente inesauribile nella richiesta di donne straordinarie nei ruoli più in vista, proseguiamo il nostro gioco delle attribuzioni. Questa volta poniamo in gara due ruoli pucciniani. Il primo di essi è quello di Manon. Manon è la protagonista di un celebre racconto dell’abate Prévost, un romanzo che ebbe la sua prima edizione nel 1738 e diverse altre successive, intitolato:” Storia del cavalier Des Grieux e di Manon Lescaut” e più volte tradotto in opera lirica come “Manon Lescaut” da Daniel Auber nel 1856, come “Manon” da Jules Massenet nel 1884, ed ancora come “Manon Lescaut” da Giacomo Puccini nel 1893. Quest’ultima è la terza opera composta da Puccini, ma può considerarsi la prima, perché le prime due, “Le Villi” e “Edgar” furono composte su libretti tanto dilettanteschi da non poter aver accesso nei grandi teatri dell’opera. Trent’anni dopo Puccini compone l’ultima sua opera. Turandot, che rimane incompleta. C’è un piccolo, insignificante particolare che mi suggerisce di immaginare un legame tra le due opere. Cioè, pur essendo cambiata l’intera schiera di librettisti a sostegno, sicuramente senza accorgersene, comunque il fatto non costituendo reato, ebbene il maestro Puccini musicò il verso “Non guardarmi così”, nel secondo atto di Manon Lescaut, in un duetto d’amore tra lei ed il cavalier Des Grieux. E poi nel secondo atto di Turandot: il principe Calaf, sfidando la morte, risolve i tre enigmi che gli danno il diritto. Turandot è disperata, si rivolge al padre e lo implora di non donarla allo straniero come se fosse una schiava e, per due volte, rivolgendosi a Calaf, esclama: “Non guardarmi così”. Io, quel verso lo notai subito, dal 1984, quando acquistai uno dei miei primi CD, e cioè la “Manon Lescaut” diretta da Giuseppe Sinopoli e cantata da Mirella Freni. La Freni lo canta in maniera “rimarchevole”, staccandolo dai versi che l’accompagnano, cambiando l’atteggiamento, il porgere e l’intonazione, effettuando come una sortita dalla linea melodica. Lo feci ascoltare anche da moglie e da altri amici, e tutti convennero che era cantato in modo “rimarchevole”, nessuno di noi fu capace di trovare un più giusto avverbio. Contrariamente alla mia abitudine, quell’edizione di Manon Lescaut rimase l’unica in mio possesso, mentre invece feci una vera e propria collezione di Turandot, almeno quattro o cinque diverse esecuzioni, che ho ascoltato per quasi trent’anni, senza accorgermi di alcuna stranezza. La stranezza di quel verso ripetuto mi è balzata immediatamente all’occhio (è proprio il caso di dirlo) in tempi recenti, da quando ho smesso di ascoltare i dischi e le opere vado a vedermele su youtube. La prima volta che su internet ho cercato e trovato una Turandot a colori e ad alta definizione, subito ho individuato quel verso. “Non guardarmi così” è la didascalia che ho posto sotto la foto della dama in verde, immobilizzata in una posa statuaria attribuibile tanto a Manon quanto a Turandot. Una posa assolutamente immobile ma “interlocutoria”, non trovate? Ma ora, prima di cambiare argomento, affrontiamo una questione più seria, ricordando innanzitutto che l’opera è rimasta incompiuta per la morte del Maestro, quando poco mancava al compimento. Ebbene, quando Turandot, disperata d’aver perso la sfida dei tre enigmi, si rivolge al padre chiedendo di non cederla come una schiava allo straniero, Calaf le offre una via d’uscita: “Tu mi hai posto tre enigmi, io te ne pongo uno solo: indovina il mio nome”. Io non conosco il testo originale della favola di Carlo Gozzi da cui è tratta l’opera, ma conosco il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, che si apre con la lettura di un editto:

La sposa negra (In memoria di Marie Winteler)

La sposa negra (in memoria di Marie Winteler)

Popolo di Pekino!
La legge è questa: Turandot, la Pura,
sposa sarà di chi, di sangue regio,
spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà.
Ma chi affronta il cimento e vinto resta,
porge alla scure la superba testa.

Il principe di Persia
avversa ebbe fortuna
……………………………

Dunque la partecipazione al concorso non era gratuita, l’ingresso non era libero: per poter partecipare dovevi essere di sangue regio! Lo sfidante non poteva celarsi dietro l’anonimato. D’altr’onde, eliminando in qualche modo l’intoppo dell’anonimato, diventava inutile il sacrificio di Liù, la schiava innamorata del padrone, che si fa uccidere per non rivelare il nome di Calaf. L’opera è praticamente terminata, la radioterapia sembra anch’essa aver avuto successo. Si stappano bottiglie di Champagne. Nelle poche, rimanenti battute, Puccini doveva trasformare la gelida e sanguinaria principessa in una trepida sposina ardentemente protesa e travolta dall’onda amorosa! Puccini aveva cominciato a comporre l’opera pieno d’entusiasmo, rapidamente procedendo con piena e fidente determinazione. Sapeva che nell’ultima scena, con un bacio, avrebbe disciolto quel cuore di ghiaccio. Al dunque scoprì che quel bacio era il bacio della morte. A Puccini, più che il tempo, mancò la forza per chiudere Turandot. Se, nella vicenda, il principe Calaf era innamorato di Turandot, nella vita Puccini era innamorato di Liù. Affidandomi completamente ai miei ricordi, Liù non era compresa nella favola di Gozzi, ma fu introdotta nel libretto di Adami e Simoni per volere di Puccini, in memoria di Doria Manfredi, la serva che, tanto tempo prima, si suicidò perseguitata dalla furiosa gelosia di Elvira, che l’incolpava di avere una tresca con suo marito Giacomo. Ogni tipo d’indagine, da quelle di polizia a quelle cliniche, dimostrarono l’assoluta incolpevolezza del maestro, che però qualche cosa nel cuore pur tratteneva. Avvenuta, sulla scena, la morte di Liù per volere di Turandot, a Giacomo Puccini venne a mancare ogni motivazione per celebrare, nella scena successiva, il tripudio di Turandot e Calaf. Non l’avrebbe mai potuto fare se non cambiando l’intera struttura dell’opera. Che quindi rimane incompiuta ma non incompleta.

Le sorelle di Cenerentola e…
Oggi la computer grafica può compiere miracoli, consentendo di creare immagini di fantasia dotate di impressionante realismo. Se fossi in grado di avvalermi di quest’arte, passerei la giornata a disegnare donne con le gambe lunghe. Visto che è possibile, e non costa nulla, le farei anche più lunghe. Aggiungerei ancora qualche centimetro. Poi mi accorgerei che l’immagine ha perso credibilità, e farei qualche passo indietro, cancellando, uno ad uno, qualche centimetro di troppo. Ma, come suol dirsi, in certi casi la realtà supera la fantasia: nella foto dedicata alle Sorelle di Cenerentola, si vedono due fanciulle che credevo non potessero esistere, cioè con le gambe più lunghe di quelle che avrei disegnato io, pur avendone la licenza. Nel sito web della Vlisco si trovano diverse foto di queste ragazze, per cui vi assicuro che sono due esseri viventi e non, loro stesse, creazioni del computer. In tutte le foto queste ragazze appaiono alquanto altezzose e supponenti, e per questo mi hanno fatto venire in mente le sorellastre di Cenerentola, non tanto nel testo originale della favola di Perrault, quando nel libretto di Jacopo Ferretti per l’opera di Rossini. Contrariamente alla più inveterata consuetudine di dipingere queste ragazze come bruttine e ridicole, buffamente abbigliate in antiquati paludamenti, il libretto non prescrive che non debbano essere realmente piacenti, perché Cenerentola è destinata a prevalere su di loro non per l’avvenenza ma per la bontà. Quasi vent’anni fa, con mia moglie vedemmo al Teatro dell’Opera di Zurigo la Cenerentola di Cecilia Bartoli. Lì per lì rimasi contrariato che fosse allestita in costumi moderni, invece che tradizionali. Ma subito dopo mi rallegrai nel vedere che le sorellastre di Cenerentola, che nella scena iniziale appaiono in fase di vestizione, invece di intabarrarsi in busti, crinoline e repellenti mutandoni, indossavano una moderna lingerie di seta, s’infilavano calze di vero nylon, e calzavano scarpine all’ultima moda. In effetti, nel libretto di Ferretti, don Magnifico loro padre mirava a far sposare al principe una delle sue figlie con lo scopo di insediarsi lui stesso a corte, ricoprire un’alta carica e distribuire licenze, franchigie e privative in cambio di laute prebende sottobanco

chi vorrebbe un impieguccio;
chi una cattedra ed è un ciuccio;
chi l’appalto delle spille,
chi la pesca dell’anguille,
……………

Poiché è indebitato fino alla cima dei capelli, ed ha un bisogno vitale di assicurarsi una carica così redditizia, non avrebbe esitato un istante, se l’avesse ritenuto opportuno, a mettere sul piatto della bilancia Cenerentola stessa al posto delle sorelle. Ed in effetti fu Cenerentola a diventare consorte del Principe e, nella sua bontà, perdonò tutte le angherie subite dal patrigno e dalle sorellastre, e così assicurò loro un prospero avvenire. Da qui il consiglio di allestire la Cenerentola dipingendo le sorelle come ragazze belle e moderne. Ma non troppo buone e misericordiose, perché queste sono prerogative esclusive di Cenerentola. Quanto alla foto che segue, è quella della grazia e della gentilezza stessa. Tutte le madri e i padri vorrebbero che il loro figlio s’imbattesse in una ragazza così, e morirebbero dalla contentezza di accoglierla in famiglia e chiamarla loro figlia. Il giovane Albert Einstein, in preparazione all’esame d’ammissione al Politecnico di Zurigo, fu consigliato di frequentare per un anno il liceo cantonale di Aarau, cittadina dell’Argovia in cui fu ospitato dalla famiglia Winteler. Una famiglia meravigliosa, in cui il padre era un professore, una madre che Einstein chiamava mammina, e sette tra fratelli ed incantevoli sorelle. Sin dall’inizio sbocciò l’amore tra Einstein e Marie Winteler, una fanciulla squisita, assennata, assai bella e sommamente aggraziata. La madre di lei sprizzava di gioia e la madre di lui la chiamò subito figlia. Ma l’anno dopo Einstein entrò al Politecnico, ove conobbe l’’unica ragazza iscritta nel suo corso di Fisica. Una jugoslava brutta, claudicante, intellettuale e tenebrosa, nelle cui spire cadde, abbandonando la radiosa Marie Winteler. Non si può dire che fosse un matrimonio sbagliato, perché sotto l’impulso di questo legame affrontò tutte le difficoltà che lo portarono alla formulazione delle sue teorie e alla sua gloria. Tra le braccia di Marie Winteler, probabilmente avrebbe avuto vita più facile, e sarebbe diventato l’assistente universitario che lui sognava di diventare, invece dell’uomo più famoso del mondo. Di Marie Winteler nessuno ha trovato più traccia e tutti la rimpiangono come moglie ideale di Einstein. Oltre ad averne cercato invano la foto sui libri e biblioteche, avevo intenzione di visitare il comune e l’anagrafe di Aarau, non l’ho potuto fare, ma tanto chissà quanti ricercatori professionisti avranno tentato quella via. Comunque Einstein, anche se ha rattristato tutti i biografi ed i loro lettori, ha grandi meriti come aperto difensore dei diritti civili dei negri americani. Lui, che a mala pena salvò la pelle rifugiandosi in America non appena Hitler salì al potere in Germania, non tardò a dichiarare che negli USA i negri venivano perseguitati peggio degli ebrei in Germania. Nel 1930, quand’era in tournée in Europa, Toscanini giudicò Marian Anderson il più grande contralto del mondo. In patria, come negra, dovette affrontare quotidiane battaglie contro la società razzista. Nel 1937 a Princeton, dove Einstein aveva una cattedra universitaria e lei l’ingaggio per un concerto, le fu sbarrato l’ingresso all’hotel Nassau Inn, e fu ospitata da Einstein nella sua abitazione a Mercer Street. Tra i due si stabilì una relazione d’amicizia, per cui lei era ospite di Einstein ogni volta che veniva a Princeton. Due anni dopo, nel 1939, l’associazione Daughters of the American Revolution (Figlie della Rivoluzione Americana) le impedì di tenere un concerto per un pubblico integrato alla Constitution Hall a Washington. Eleanor Roosevelt, moglie del presidente degli Stati Uniti, diede le dimissioni da quell’associazione, e l’aiutò a realizzare una controdimostrazione in forma di un concerto all’aperto sui gradini del Lincoln Memorial, la successiva domenica di Pasqua, cui assistettero 75.000 spettatori in piedi e milioni e milioni di radioascoltatori di tutto il mondo: l’amicizia tra questa signora che irradiava intorno a sé un’aura di santità, e Einstein durò sempre, ed ella venne ospite in casa dello scienziato per l’ultima volta due mesi prima della sua morte nel 1955. Marian Anderson morì a 96 anni nel 1993. Ella tenne un’infinità di concerti e di recital perché non ricevette mai una vera e propria scuola di recitazione sul palcoscenico di un teatro lirico: L’unica volta che prese parte ad un’opera lirica fu nel 1955, al Metropolitan di New York, nell’Opera “Un Ballo in Maschera” di Verdi nel ruolo di Ulrica. Scrivendo dunque il nome di Marie Winteler sotto la foto della gentile ragazza, che ci ricorda anche la fidanzata in cerca dell’abito da sposa, intendiamo ricordare la gentile signorina di Aarau, Einstein difensore dei diritti civili, e Marian Anderson. Quanto alla didascalia dell’ultima foto, essa è: “Futurismo” perché rievoca le ardite inquadrature, le forme rivoluzionarie ed i colori dei pittori italiani degli anni venti.

Futurismo

Futurismo

Excusatio
M’è venuto fuori un articolo due o tre volte più lungo di quanto pensassi, ma ne valeva la pena. Mi sono dilungato oltre ogni misura nell’omaggio a queste belle donne. Ma attenzione, non si tratta di una galanteria, bensì, posso dirlo, di una felice prognosi scientifica. Sfogliando le pagine di internet, alla voce “evoluzione” immancabilmente troverete una tavola dell’evoluzione nel portamento dell’homo sapiens, dal quadrumane iniziale all’uomo dritto sulla sua schiena. Ma in tutto il mondo è la donna negra ad avere la schiena più eretta. Un’altra tavola mostra l’evoluzione del profilo facciale, che da quello sottile e sfuggente di un rettile, si rialza col cane e col gatto, e si conclude col neonato dalla fronte alta e spaziosa: Ebbene, la famosa front bombé tipica delle negre africane è quella che contiene maggior massa cerebrale. Inoltre, la tendenza istintiva delle negre verso l’abbigliamento e l’arredo multicolore offerto dalle loro stoffe, alla luce del Color Test di Max Lüscher denota una maggior giovinezza intrinseca ed una più spontanea apertura alla vita, rispetto all’abbigliamento monocromatico delle donne occidentali. Tutte queste ambite caratteristiche fanno sì che, automaticamente, abbiamo aperto il filo diretto con la Donna Superiore.


9 aprile1939: Marian Anderson canta al Lincoln Memorial

Fabbricazione Vlisco di wax prints