Di Marino Mariani
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Il mio antico compagno di scuola, Giovanni Angeli detto Vanni, che fu capo redattore del quotidiano romano “Il Tempo”, che voleva assolutamente che anch’io diventassi giornalista, che chiudeva ogni riunione col vaticinio del giorno in cui i giornali di tutto il mondo sarebbero usciti con lo stesso titolo: “Il cancro è vinto!”, se oggi, nella sua sede ultraterrena, avesse letto il libro: “China Study” dei dottori padre e figlio Colin e Thomas Campbell, saprebbe che da sempre il mondo pullula di agenti cancerogeni ma questi agenti attecchiscono, si sviluppano e provocano i loro effetti devastanti solo se cadono su un terreno propizio, come fanno i semi e le spore delle piante, portate dai venti. Il dott. Campbell padre, a seguito della sua semisecolare carriera di ricercatore e delle decine di milioni di dollari messi a sua disposizione dalle istituzioni accademiche americane e dal governo della Repubblica Popolare di Cina, ha determinato che il terreno più propizio all’attecchimento dei germi cancerogeni è costituito dai cibi di natura animale. A parità di agente cancerogeno inalato o ingerito, il cosiddetto uomo omnivoro, cioè colui che ammette nella sua alimentazione carne, pesce, uova e latte, ha molteplici probabilità di contrarre il cancro. Il vegano, invece, cioè colui che esclude tassativamente dalla propria alimentazione ogni cibo o sostanza di natura animale, ha ottime probabilità di risultare impervio agli attacchi del cancro. Naturalmente, come ho spiegato altre volte, uso il nome del cancro, che è quello che incute maggior terrore, per caratterizzare tutta la corte delle cosiddette malattie del benessere, e cioè le cardiopatie, il diabete di primo e secondo tipo, la sclerosi multipla ed un’altra quarantina di nomi, comprendenti anche la stessa scienza medica ufficiale, che naviga nel plotone di testa. Non considero la categoria dei “vegetariani” perché costoro, pur rinunciando alla carne propriamente detta, per pietà verso gli animali, non rinunciano a uova, latte (e qualche pollo), vanificando senza volere le proprie buone intenzioni, perché gli allevamenti intensivi di mucche da latte e di galline da uova non sono meno atroci degli allevamenti di animali da macello, e col consumo di latte e prodotti caseari che, come dice il nome, sono costituiti essenzialmente dalla caseina, cioè dalla proteina animale massimamente considerata cancerogena, rimangono esposti al pericolo di contrarre il cancro in misura anche maggiore degli omnivori. Orbene, Colin Campbell, nato in una fattoria in cui si allevavano mucche da latte, ha ottenuto i suoi risultati sperimentando sui topolini da laboratorio, sui malati, sulle popolazioni, e per popolazioni si deve intendere la maggiore di questo pianeta: quella della Repubblica Popolare di Cina. Ovviamente, lo studio epidemiologico effettuato in China costituisce l’impresa più spettacolare compiuta dal dott. Campbell e se, da una parte, lascia varchi accessibili alle osservazioni critiche (dovute all’esistenza di particolari caratteristiche locali, ambientali e culturali stratificatesi nel corso dei millenni), essa ci dà la certezza delle certezze: nessuna ricerca sull’alimentazione umana ha mai avuto l’estensione temporale e la ricchezza di mezzi a disposizione quanto quella di Colin Campbell e dei suoi collaboratori. Comunque la ricerca svolta in Cina dimostra che, su una carta geografica, il cancro si distribuisce a macchia di leopardo, secondo le abitudini alimentari della località considerata. In una provincia il cancro può essere praticamente assente, mentre in una provincia limitrofa può assumere dimensioni preoccupanti. Durante la ricerca epidemiologica in Cina, veniva controllata la spesa alimentare effettuata sul mercato locale da una famiglia, nel corso di tre giornate successive, e così le risultanze sanitarie venivano confrontate con le abitudini alimentari della località. Balzò subito in chiara evidenza la stretta correlazione del quadro sanitario col quadro alimentare: analogie alimentari comportavano analogie. sanitarie Per dirla in altre parole: chi mangiava le stesse cose, aveva le stesse malattie, ovviamente nei limiti degli errori sperimentali, ben tenuti in considerazione nel corso dell’analisi statistica dei dati raccolti. La medicina ufficiale, invece, proclamava l’indipendenza del cancro dall’alimentazione, e, semmai, poneva l’accento sulla sua origine genetica: “In quella famiglia il cancro si trasmette da padre in figlio”. Errore: la ricerca approfondita ha dimostrato che il fattore genetico non si spinge oltre ad una presenza valutata attorno al 3% dei casi. Però, se i genitori avevano un determinato malcostume alimentare, ovviamente trasmesso alla figliolanza, le due generazioni andranno incontro allo stesso destino.
Il frutto del caso
Non a caso molte scoperte d’importanza fondamentale avvengono per caso, o per lo meno in modo del tutto inaspettato, a seguito di risultati clamorosamente diversi dalle aspettative più ragionevolmente fondate. È quello che accadde, per esempio, con l’esperimento di Michelson e Morley teso a misurare la velocità della Terra e della luce in quello spazio immateriale ipotizzato e chiamato “etere” (vedi articolo: “Einstein: 5a parte”). Ebbene, l’esperimento di Michelson e Morley, più volte ripetuto entro la fine del 1800, fu considerato fallito perché non rivelò nessuna variazione della velocità della luce misurata in un istante qualsiasi, e rimisurata dopo sei mesi, quando il nostro pianeta aveva invertito la sua direzione di moto nel percorrere la sua orbita nello spazio celeste. Ma Einstein interpretò il risultato di quello storico esperimento in maniera del tutto opposta e inaspettata: il risultato negativo era esatto, la velocità della luce non si compone vettorialmente con la velocitò della sorgente e dell’osservatore nel moto in quello spazio di riferimento fisso che pervaderebbe tutto l’universo, e chiamato etere. L’etere non esiste e, come ben sapete… tutto è relativo! Un caso analogo è successo a Colin Campbell, il nostro autore di riferimento nel campo delle ricerche contro il cancro. Nel 1965 Campbell lasciò il MIT (Massachusetts Institute of Technology) ed entrò nel Virginia Tech. ove si trovò coinvolto in un progetto internazionale di alimentazione per bambini malnutriti.
Si trattava di realizzare un progetto di “autoaiuto”, rivolto alle madri, nelle Filippine, cui si sarebbe insegnato a far uso delle quantità giuste di cibo locale, per evitare di far ricorso sistematico ai medicinali. Questo programma ebbe inizio nel 1967 e comportò il prolungato soggiorno di Campbell in quelle isole, ove furono istituiti centri di puericoltura con lo scopo di insegnare alle mamme come generalizzare l’uso delle proteine, considerate il fulcro di una corretta alimentazione. Poiché il pesce era disponibile, sia pur scarsamente, solo nelle zone costiere, come fonte di proteine furono individuate le arachidi, una pianta della famiglia delle leguminose, cui appartengono ceci, lenticchie, vari tipi di fagioli, piante che hanno la caratteristica di fissare l’azoto direttamente dall’atmosfera, con grande risparmio di fertilizzanti. Ma, sfortunatamente, dalle analisi risultò che queste noccioline erano soggette alla contaminazione di aflatossina, una sostanza tossica prodotta da un fungo, già riconosciuta come il peggior agente cancerogeno finora individuato, principalmente responsabile del cancro al fegato. A questo punto vi risparmio la tragica rappresentazione dei figli dei poveri, denutriti, ridotti a piccoli scheletri ambulanti, e quella dei figli dei ricchi, devastati dal cancro al fegato! Sì, proprio così: con sommo stupore Campbell e i suoi collaboratori constatarono che il cancro prediligeva i bambini che godevano di una alimentazione regolare, abbondante e…proteica. Basata, appunto, su quelle proteine che, si pensava, dovevano assicurare la buona salute. Chissà quanti ricercatori si sono trovati di fronte ad un’analoga constatazione, ed hanno taciuto temendo la reazione della casta. Ma Campbell, quasi contemporaneamente, dovette subire un altro colpo alla sua fede innata verso le proteine: nello stesso periodo di tempo una oscura pubblicazione di carattere medico, in India, riportava i risultati di un esperimento basato sullo studio del cancro al fegato in relazione al tipo di nutrizione su due gruppi di topolini da laboratorio. Ad ognuno di essi veniva iniettata l’aflatossina (AF), ma uno era nutrito con una dieta al 20%, all’altro veniva iniettata la stessa dose di AF, ma la dieta conteneva solo il 5% di proteine (attenzione, tali percentuali sono in calorie, non in grammi!). Ebbene, ognuno dei topi del 20% contraeva il cancro al fegato o le sue lesioni precorritrici, mentre nessun esemplare del 5% contraeva il cancro o le tipiche lesioni precorritrici. Non si trattava più di una banale differenza, ma di un 100% contro lo 0%, spettacolare conferma delle considerazioni emerse sui bambini filippini: più vulnerabili al cancro al fegato erano coloro che consumavano diete maggiormente proteiche. Parla Colin Campbell: “Nessuno sembrava accettare quel rapporto proveniente dall’India. Su un volo partito da Detroit, al ritorno da una presentazione ad un convegno, viaggiai con un mio ex-collega, molto più anziano, del MIT, il prof. Paul Newberne. A quei tempi era uno dei pochi ad essersi occupato approfonditamente del ruolo dell’alimentazione nello sviluppo del cancro. Gli riferii le mie impressioni ricavate dal lavoro nelle Filippine e gli parlai della pubblicazione indiana, che lui liquidò sommariamente asserendo che dovevano aver invertito i numeri nelle gabbiette degli animali, e che una dieta ad elevato contenuto proteico non potrebbe, in nessun modo, favorire lo sviluppo del cancro”. Così parlò Zaratustra, poco prima che scoccasse l’anno 1970. A quel tempo per proteine s’intendevano quelle animali, e si faceva ancora finta che l’intestino dell’uomo non fosse quattro volte troppo lungo per impedire alla carne di imputridire durante la digestione. E quindi la fede del prof. Newberne nelle proteine (animali) era del tutto antiscientifica. L’esperimento indiano sull’alimentazione degli animali di laboratorio fu ripetuto infinite volte da Campbell, dai suoi collaboratori e da laboratori indipendenti, e dimostrò non solo che le proteine animali, se ridotte ad una percentuale inferiore al 5%, non attivavano il processo di insorgenza del cancro, ma che questo risultato era ottenuto anche con qualsiasi percentuale di proteine vegetali. Cioè, sostituendo il glutine alla caseina, gli animaletti passavano indenni anche a forti dosi di agente cancerogeno iniettato, per esempio l’aflatossina. Va da sé che questo tipo di sperimentazione è stato effettuato per tutti i tipi di cancro, di tutte le malattie cosiddette del benessere, ed anche su quelle catalogate come autoimmuni. Illustri clinici hanno adottato i principi alimentari esposti, cioè la riduzione fino allo zero assoluto dei cibi di natura animale, con risultati che incoraggiano la fede nel trionfale bollettino di guerra: il cancro è vinto.
Da mangiare e non mangiare
In maniera semplice e sincera si può dire, anzi bisognerebbe proclamarlo ad alta voce,, che il cancro va da chi lo vuole. Le probabilità di contrarlo, per chi mangia carne, pesce, latte e uova, sono molto, ma molto maggiori rispetto ai vegani, cioè coloro che mangiano solo cibi di natura vegetale e non mangiano nessun cibo di natura animale. Ma attenzione, queste clausole principali vanno corredate da clausole aggiuntive di importanza fondamentale. In pratica, come si suol dire in matematica e scienze, sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Ci sono sostanze vegetali completamente denaturate dalla loro elaborazione industriale, ed in prima linea troviamo lo zucchero, ed è inutile che andiate dal dottore a chiedere se è migliore quello di canna o di barbabietola, grosso, grigio, bianco o fino: eliminatelo, a casa mia non ce n’è. Peggio ancora è rivolgersi ai cosiddetti dolcificanti. Io non mangio e non confeziono dolci. Però su internet potete informarvi sulla stevia rebaudiana, una pianta erbacea della famiglia delle crocifere, che si può coltivare in vaso, le cui foglie sono 200 volte più dolci dello zucchero: L’industria si è già gettata a corpo morto su questa gallina dalle uova d’oro, ed è facile trovarla, per lo meno su internet, in bustine, in compresse e in boccette. Mentre ancora non era liberalizzata nella maggior parte del mondo, la Coca Cola ottenne in Giappone la licenza di utilizzarla nel suo concentrato in sostituzione dei suoi zuccheri (la Coca Cola sostiene di non utilizzare zucchero propriamente detto, bensì sciroppi di vario tipo, ma assolutamente equivalenti). Un vantaggio della stevia, è che la sua produzione generalizzata permetterebbe di eliminare gli zuccherifici, che sono stabilimenti piuttosto inquinanti, nonché le colture di barbabietole e di canna, da destinare a produzioni di maggiore importanza. Non domandatemi del miele perché non ne ho nessuna esperienza. Ma ricordatevi di eliminare lo zucchero perché è un’imitazione quasi perfetta dell’ATP, il trifosfato di adenossina, che è il vero zucchero prodotto dall’organismo umano a seguito del metabolismo, quello che costituisce il liquido vitale che scorre nelle vene e nei capillari per nutrire le cellule. Lo zucchero commerciale è il promotore ideale dell’obesità e di tanti altri mali. Utilizzare questo tipo di zucchero, equivale a mettere in banca un forziere pieno di fuffa, invece che dei dobloni d’oro dell’Invencible Armada. Accanto allo zucchero, ci sono altri carboidrati da mettere al bando per via del processo degenerativo causato dalla lavorazione industriale. Un problema praticamente insolubile è quello della farina bianca, Farina integrale o semintegrale vera la potete ottenere solo se siete provvisti di un molino casalingo a mano o a motore, ma con la macina in pietra, e se comprate il grano a parte da fonte fidate, e se avete un forno adatto per produrre in casa pane e pizza. Sin da piccolo so che i molini industriali a cilindri producono solo farina bianca (che va posta al bando), e pongono in commercio farine varie più o meno scure (in Italia si dice: con diverso indice di abburattamento) rimescolandole con la crusca messa da parte. Ma in questo modo l’integrità del prodotto è andata distrutta, e la pasta integrale, ed il pane integrale, che vi vendono, sono falsi integrali e non vale la pena pagarli più cari. Si dice che la farina del diavolo va tutta in crusca. Ecco come nascono i nuovi ricchi! Un mio amico, che bazzica i paesini intorno a Roma, compra il grano a sacchi e lo porta in un molino di sua conoscenza, dove glielo macinano gratis ma si tengono la crusca, che rivendono sul mercato del mangiar sano, della cura del corpo e dei prodotti di bellezza. In definitiva, siccome pane, pasta e pizza mi piacciono, non ho deliberato la loro drastica eliminazione ma semplicemente la loro limitazione a favore della polenta e, soprattutto, del riso. Il riso è il cibo dell’uomo neoterico, il successore dell’uomo sapiente (homo sapiens) che mi sembra in forte declino e, possibilmente, candidato all’estinzione. Ma attenzione: il riso è un cibo che può, e dovrebbe, essere consumato anche tutti i giorni, anche due o tre volte al giorno a patto che sia riso integrale (ed anche biologico). Il riso brillato, ovvero il riso bianco, va assolutamente proibito, e quello parboiled, detto anche converted o convertito, non mi attira perché viene assoggettato ad un processo industriale supplementare, destinato al recupero di alcune sostanze perdute nella brillatura.
Comunque, in tale circostanza, vale un proverbio russo che Kruscev amava citare spesso: “Quando la ragazza ha partorito, nessun comitato le può ridare la verginità”. Io ho studiato la cottura del riso su un manuale d’alta cucina giapponese, che rassicurava il lettore: in vent’anni si poteva imparare benissimo a cuocerlo alla perfezione. Ma fortunatamente il libro avvertiva anche che ora (più di trent’anni fa) sono disponibili i cuociriso automatici che consentono la cottura perfetta sin dal primo giorno. Sì, è una vera fortuna quella del cuociriso automatico, perché, anche se si possiede la ventennale perizia, la cottura del riso rimane sempre un’operazione lunga che ruberebbe al cuoco tempo prezioso, perché il riso richiede un’attenzione meticolosa, e non potrebbe essere abbandonato a se stesso neanche per brevi istanti. Col cuociriso, invece, acceso l’interruttore, la macchina fa tutto da sé, ed al termine della cottura si spegne e tiene in caldo. Naturalmente, quando parlo di attenzione meticolosa parlo di un livello d’arte culinaria di grado superiore. In Giappone il capo cuoco di un grande ristorante, ma anche il padrone di una modesta botteguccia, conoscono alla perfezione il loro riso preferito, riconoscono da che provincia proviene, se è dell’ultimo raccolto o se è dell’anno scorso. Pretendono che sia a grana corta o lunga, e se si presta ad una perfetta cottura che in Giappone e in giapponese viene chiama “al dente” (strano, proprio come in italiano). Durante la primavera dell’anno 1980 mi trovavo a Boston nel Massachusetts, dove la città era in festa per l’arrivo di Luciano Pavarotti, talché in ogni bar del quartiere del porto, nelle piazze e nei giardinetti, ed in tutti i grandi magazzini, da tutti gli altoparlanti si sentiva e risentiva cantare e ricantare “’A vucchella”, canzone di Francesco Paolo Tosti su testo dialettale, scritto per scommessa da Gabriele D’Annunzio. Ma quando mi trovavo in qualche bella metropoli straniera, la mia meta preferita erano le librerie, e nel viaggio di ritorno ero sommerso dal peso di valige e zainetti traboccanti di libri. Quella volta, nelle grandi librerie, il motivo di grande richiamo era la presentazione della prima edizione di quello che fu immediatamente riconosciuto come la sacra scrittura della cucina classica del Sol Levante: “Japanese Coocking/ A Simple Art”. La “Semplice Arte” è quella degli artisti che compiono la loro opere con un tratto netto, nitido e deciso, escludendo ogni ridondanza ed ogni inutile ornamento. La nitidezza e decisione di Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Caravaggio…La semplicità della cucina giapponese è una chimera che non può essere raggiunta senza un allenamento…esasperante! A quel tempo ero già stato molte volte in Giappone, non solo per motivi professionali, ma anche in vacanza e non penso minimamente di cavarmela dicendo che avevo “apprezzato” la cucina giapponese. Altro che apprezzato, ne ero rimasto folgorato, conquistato, annichilito, distrutto. Ma anche esaltato, fervidamente entusiasta e…rigenerato. Ero già stato in località rinomate del calibro di Parigi, Las Vegas, San Francisco, Los Angeles, New York, Bruxelles, Amsterdam, Copenaghen…niente colazioni al sacco e spuntini al volo, ma l’alta cucina di ristoranti decorati con tutte le stelle di un celeste ammasso globulare. Nella Bibbia (da non confondere col Vangelo) la massima ricompensa per una vita trascorsa nella stretta osservanza dei comandamenti, era la sospirata conquista del “grasso della Terra”, mentre le cerimonie liturgiche consistevano nell’immolazione di un giovane animale “senza imperfezioni”, sua immediata cottura alla brace e spargimento sino alle narici del Signore del profumo più inebriante di ogni tipo d’incenso, quello del grasso arrostito. (Per maggiori approfondimenti, visto che tutti a casa hanno una Bibbia, leggete il Pentateuco). D’altr’onde, dalle nostre parti, volendo esprimere la soddisfazione per una fortunata abbondanza, spesso esclamiamo: “È tutto grasso che cola!”. In Giappone, tale figura, nella sostanza e nell’allegoria, non esiste. Il Giappone è il Paradiso Terrestre della sventura, e sin dal primo balbettante inizio dei tempi i giapponesi sono abituati a convivere con i terremoti, le inondazioni, gli incendi, ogni sorta di calamità naturale e, in tempi più moderni, i bombardamenti atomici e i disastri nucleari. Il numero dei fedeli delle varie religioni professate in Giappone è superiore al numero complessivo della popolazione dell’arcipelago, segno che il cittadino ne professa più d’una. Esse sono lo Scintoismo, la religione delle tradizioni familiari, municipali, e delle divinità locali. Nelle cerimonie pubbliche, c’è sempre un atto di omaggio e di rispetto per il Genius Loci (il genio del luogo). Il Confucianesimo è maggiormente orientato alla tenuta dello Stato, e quindi ha una portata più nazionale che municipale. E poi, nel cuore di tutti, c’è il Buddismo, la religione del Gautama Shakyamuni, il principe nepalese vissuto mezzo millennio prima di Gesù, che abbandonò la corte per meditare sul senso della vita, e poi predicò errando, sì, come un mendicante ma invitato a parlare e devotamente ascoltato non solo e non tanto dai poveri, quanto da ricchi mercanti, da principi e re, dalle più celebrate cortigiane, che venivano portate al pianto e al pentimento. Con i millenni, il buddismo si è diffuso dappertutto nel mondo, e viene dovunque considerato e rispettato. Un tratto saliente del carattere giapponese e costituito dalla sua fierezza nell’autogiudicarsi ed è pronto a suicidarsi sia per punire le proprie colpe, sia per dare un solenne sigillo alle proprie ragioni. I Samurai si suicidavano per difendere l’onore del proprio padrone, gli amanti infelici trovavano nel comune suicidio la via per fondersi in quell’unione che il mondo contrastava. Soldati si suicidavano per la morte di un generale, d’un ammiraglio. Il popolo piangeva per la morte dell’Imperatore e molti cittadini sottolineavano il loro cordoglio col suicidio. Anche i bambini giapponesi si suicidano sotto il peso degli impegni scolastici. Nella 2a Guerra Mondiale il Giappone si piegò alla resa militare per l’affondamento della sua flotta, per l’incendio di Tokyo, per il bombardamento atomico di Hiroshima e di Nagasaki, ma non rinunciò neanche un istante a difendere le sorti del proprio Imperatore. Ed il generale MacArthur, vittorioso e trionfante, infatti, non osò mettere le mani sull’Imperatore Hiro Hito, per non provocare l’immediato suicidio di milioni di giapponesi. Il padre di Cio-Cio San riceve in dono una spada con l’ordine di suicidarsi. A sua volta Cio-Cio San si suicida con un coltello regalatole dal padre, su cui è inciso: “Con onore muore chi non può con onore serbar vita”. Io, atterrito, non posso vedere ed ascoltare l’ultimo atto di Madama Butterfly, perché non ho la forza di concepire la rinuncia volontaria al bene della vita. E mi domando dove trovò la forza Giacomo Puccini per far morire sulla scena tutte le sue amate eroine.
La cucina giapponese
Non mi sono dimenticato di avervi parlato di un libro di cucina giapponese presentato a Boston nella primavera del 1980, in concomitanza con un concerto di Luciano Pavarotti in quella città. Dopo averne sfogliato le prime pagine, lo acquistai, pur rendendomi conto che si trattava di un libro tutt’altro che di facile consultazione, D’altra parte a me serviva un libro di studio, più umanistico di un semplice ricettario. Essendo già stato più volte in Giappone, già avevo importato, per così dire, alcuni piatti in Italia. Adesso tutti conoscono il sushi e il tempura, ma a quel tempo li conoscevo solo io. Inoltre, a quel tempo, attraversavo un periodo piuttosto florido, ed abitavo all’Olgiata, una località poco fuori Roma sede del maggiore campo da golf italiano, sede delle scuderie in cui veniva allevato Ribot, il galoppatore del secolo, figlio di Romanella e Tenerani, vincitore di tutte e sedici le gare cui partecipò. Sede di un quartiere residenziale esteso su 720 ettari ricchi di boschetti, deliziose selvette ed ampie radure, ove io occupavo due ville prospicenti, di cui una era sede della redazione e dei laboratori della mia rivista Audiovisione, l’altra costituiva l’abitazione della mia famiglia. Con tanto spazio a disposizione, avevamo la casa sempre piena d’invitati, ed è da quel momento che cominciai ad interessarmi di cucina e di alimentazione. La prima volta che cucinammo il tempura, il fritto dorato giapponese, mia moglie ed io mettemmo tutta la casa in disordine e portammo in tavola una quantità di fritto eccessiva rispetto allo standard giapponese, che però fu consumata tutta quanta, e benché il grado d’esecuzione fosse veramente dilettantesco, avemmo la soddisfazione che tutti gli invitati, pur avendone fatto una scorpacciata senza sentirne il peso, erano pronti a ricominciare. È questa la ragione per cui, sin dal primo approccio, predilessi la cucina giapponese rispetto a tutte le altre di ogni parte del mondo. Trassi la convinzione, sempre più confermata nel tempo, di una loro maggiore sapienza, di una superiore coscienza, di una più profonda attinenza con la realtà di un problema che non dalla sua apparenza. Bisogna assolutamente che vi porti alcuni esempi e poi concluderò questo articolo. Se in una città giapponese perdete l’orientamento, abbiate l’avvertenza di portare con voi una mappa della città. Nel momento del bisogno, apritela e consultatela, e subito qualcuno accorrerà in vostro aiuto. Siccome non vi capirete, lui si offrirà di accompagnarvi. Una volta a Tokyo ero con Mario Taccini, un mio collaboratore, ed un signore solerte ci accompagnò alla meta per almeno un kilometro. Quest’altra l’ho letta: se state nuotando in piscina, a vostra insaputa un signore si avvicinerà al bordo vasca, e comincerà a cronometrarvi. Poi richiamerà la vostra attenzione e vi spiegherà come dovete effettuare la respirazione e come dovete sincronizzare i battiti delle gambe con le bracciate. Ciò è inevitabile, qualsiasi sia la disciplina o il passatempo che state praticando. Quest’altra è vera: mi trovavo ad Osaka in visita ad una fabbrica della Matsushita, che, a quel tempo era la maggiore ditta elettrotecnica del mondo. Visitavo il montaggio di certe casse acustiche. Un ascensore portava i pezzi da montare, ed una squadra di quattro giovanotti, in tenuta ginnica si avventava sui componenti con chiavi, pinze e cacciaviti. Con perfetto sincronismo montavano la cassa e l’avviavano al collaudo, imballaggio e immagazzinamento. Mi colpì uno di loro per il suo particolare vigore, per la sua agilità e, pur svolgendosi quel lavoro in assoluto silenzio, sembrava che comandasse lui ed incitasse i suoi compagni. Poiché portava in testa un nastro verde, dedussi che era il capo di quel gruppo. Lo domandai alla mia guida che mi rispose: “No, porta quel nastro perché sta in sciopero”. Ed a proposito di scioperi, in quella stessa occasione tutti i giornali parlavano dello sciopero dei traghetti che sarebbe scattato l’indomani, e pubblicavano fotografie di come gli impiegati si preparavano a trascorrere la nottata in ufficio visto che, in una città portuale come quella, lo sciopero dei traghetti significava la paralisi completa del traffico. Chi si portava le coperte, chi certe brandine ripiegabili, chi si preparava a pernottare su una scrivania…Lo sciopero, all’ultimo istante, fu revocato, come avviene in Svizzera, in cui si discute, si minaccia…e non si sciopera mai, Quest’altro esempio, ovviamente, l’ho letto sui libri, ma ci credo ciecamente: se state passando una serata in casa con i vostri amici, siamo attorno alla mezzanotte e la birra è finita, mandate pure vostra figlia tredicenne a comprarla al bar più vicino, Non correrà nessun pericolo perché la Yakuza veglia su di lei. La Yakuza è la cosiddetta mafia giapponese, in cui gli adepti si riconoscono perché sono vestiti da gangster: cappello a larghe falde, cravatta bianca e occhiali da sole anche di notte. La Yakuza serve a mantenere un perfetto ordine pubblico, e tiene le città al riparo dalla droga e dalla prostituzione, visto che loro s’interessano di ben altro: l’appalto di grossi lavori pubblici come strade, aeroporti, quartieri operai, quartieri residenziali… E veniamo alla cucina giapponese e alle sue sacre scritture. Il libro “Japanese cooking/ Simple Art”, di cui in seguito acquistai altre due copie, una per mia moglie e l’altra per mia figlia, fu scritto da Shizuo Tsuji, preceduto dall’introduzione della scrittrice e giornalista MFK Fisher, un’autorità assoluta in campo mondiale, per ogni tipo di letteratura riguardante l’alimentazione. Shizuo Tsuji fu la più splendida stella dell’alta cucina giapponese, con una scuola per chef frequentata da allievi provenienti da tutto il mondo. Sono stato reticente a presentarveli perché, andando alla ricerca di materiale documentario, ho avuto l’amara notizia che entrambi erano morti, nel 1992 lui, nel 1993, in età decisamente giovanile, sulla sessantina. Se almeno avessi avuto la pazienza e la sagacia di informarmi dove avrebbero tenuto la loro conferenza quella sera a Boston, gli avrei fatto firmare la mia copia. Una sciocchezza, direte, comunque spero di onorare la loro
memoria in maniera più concreta, ed infine li voglio accanto a me, accanto a noi, in questa chiamata a raccolta per un’alimentazione aristocratica che ci liberi dalla concezione zootecnica della lobby americana (sto raccogliendo materiale relativo alla lobby alimentare in Italia). Il Giappone è l’unico paese al mondo che può vantare una vita media superiore a quella italiana, facciamo bene a cercare di svelare tutti i suoi segreti: io ho letto, più volte, il “Genji Monogatari”, nella traduzione in inglese di Edward Seidensticker e in quella di Royall Tyler (solo adesso vengo a sapere che è uscita la prima traduzione italiana di MT Orsi), un libro di mille pagine scritto intorno all’anno mille dalla nobildonna Fujiwara Fuji che, nominata dama di corte, assunse il nome di Shikibu Murasaki, e non ho trovato traccia di banchetti nel suo libro, che è una cronaca dettagliata della vita nella corte dell’imperatore, ricca di competizioni poetiche e sportive, oltre che amorose. E tale traccia non ho neanche trovato nell’altra grande autrice di quell’epoca, Sei Shonagon. Ed anche i massimi autori moderni come Yuko Mishima, Shusaku Endo ed il premio Nobel Yasunari Kawabata, che io mi ricordi, citano con particolare accento al mangiare inteso come fonte di piacere. Questo paese ha dunque sviluppato, nei millenni, il tipo di alimentazione più sano del mondo senza mai cadere nel peccato di gola.
Conclusioni
Dopo aver inizialmente riportato i risultati ottenuti da Colin Campbell nella sua gigantesca ricerca intitolata “China Study”, risultati che ci consentono di asserire che il cancro è vinto in quanto basta evitare il consumo di cibi di natura animale, costituzionalmente estranei all’alimentazione umana, mi sono lasciato travolgere dal ricordo dei miei viaggi ed avventure in tutto il mondo (al di sopra dell’equatore) e dall’impatto che ha avuto su di me l’incontro con la civiltà giapponese, e ciò mi ha portato addirittura fuori tema. Piuttosto che riscrivere tutto l’articolo, preferisco aggiungere queste poche note correttive. Che i giapponesi detengano il primato mondiale di durata della vita, sia pure di poco sopravanzando l’Italia, è un fatto incontrovertibile. La loro cucina piace a tutti, a cominciare dal sushi, che sta andando di moda in ogni parte del mondo nonostante lo stato di estremo inquinamento dei mari. I miei ricordi sul mondo giapponesi sono vecchi di trent’anni. Tradizionalmente i giapponesi erano piccoli e caratterizzati da una bruttissima dentatura e sono notevolmente migliorati con l’introduzione parziale dell’alimentazione di tipo occidentale. Essi compiono pervicacemente il peccato mortale di dar caccia alle balene. Sbagliano a fare il loro pasto principale la sera invece che al mattino, e a consumare riso brillato invece che integrale. Sbagliamo anche noi ad elogiarli in tutto e per tutto e tanto più sbagliamo se cerchiamo di imitarli pedissequamente. Come sbaglia il resto del mondo dando troppo credito agli italiani, basandosi sull’ineguagliabile ricchezza della tradizione artistica e sulle vestigia dell’antico impero romano. Il mondo sta attraversando la maggior crisi da quando è sorta la cosiddetta civiltà e dobbiamo sforzarci di individuare le cattive abitudini, correggendole invece che perpetuandole. Per cantare vittoria sul cancro non basta evitare i cibi di natura animale, ma anche quelli di natura vegetale degenerati dalla lavorazione industriale. La partita è ancora in pieno svolgimento, ma sia ben chiaro che la scelta dell’alimentazione vegana non è assolutamente una scelta di rinuncia e sacrificio, ma addirittura una scelta elitaria.